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Latte piemontese: perché non siamo competitivi

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Il latte piemontese, o meglio le aziende produttrici (leggi gli allevatori), sono in crisi. Da mesi (se non da anni) a ritmo continuo vediamo proteste di allevatori, imprenditori ed associazioni (e non solo in Piemonte). Concetti come “quote latte”, sottocosto, decisioni di Bruxelles sono parole che periodicamente entrano nelle nostre case attraverso telegiornali e media. Ma ci capiamo qualcosa?

Argomento ostico quello del latte, che rischia di essere ideologizzato e politicizzato. Partiamo dai numeri: forte calo dei consumi interni ed esteri (in picchiata la vendita di formaggi in Russia per l’embargo), a fronte di un aumento di produzione di latte piemontese dopo la fine del sistema quote. Tra aprile 2015 e gennaio 2016, in Piemonte sono state munte 834.000 tonnellate, l’1% in più dello stesso periodo dell’anno prima (dati Clal).

E i volumi di gennaio 2016 di latte piemontese presentano incrementi ancora maggiori se confrontati con lo stesso mese 2015: +10,93% nell’Astigiano (487 tonnellate), +6,15% a Biella (984) e aumenti consistenti anche nelle provincie maggiori produttrici, vale a dire Cuneo (47.123 tonnellate, +2,05%) e Torino (27.637, +3,12%). In Valle d’Aosta, invece, la produzione dei primi 10 mesi di campagna è scesa del 5,53% (21.864 tonnellate contro le precedenti 23.145), anche perché tra le mille stalle che hanno chiuso l’anno scorso in tutta Italia, la maggioranza era in montagna.

Il latte “spot” (quello venduto senza contratti a lungo termine) viene pagato alle stalle 29 centesimi al litro, contro i 36 centesimi di un anno fa (-19%), ma al supermercato arriva a costare 1,50€, con ricarichi superiori al 400%.

Primo mistero. Perchè la produzione aumenta dell’1% mentre il prezzo “spot” cala del 19%? Vero è che il latte, materia base per produrre formaggio, yogurt e altri prodotti è protagonista di accordi di lungo termine fra industria e allevatori.

Latte piemontese

Ma questo rapporto è di collaborazione o di tensione? Pare che l’industria, nonostante grandi dichiarazioni di facciata sulla filiera, continui invece a fare il suo vecchio mestiere, ovvero reperire materia prima accettabile a prezzi bassi con buona pace della provenienza piemontese.

Caseificio Valgrana, per esempio, non sfugge a queste logiche, appunto industriali. Copio dal sito TerraOggi: Da oggi non so a chi vendere il mio latte, e come me ci sono, nel Saluzzese, altri tre colleghi. Saremo solo i primi. L’accordo con il caseificio (Valgrana Spa di Scarnafigi) scadeva ieri. E non è stato rinnovato”. (scadenza di un accordo firmato nel 2014, scaduto appunto il 1 aprile. Nelle parole di Franco Godino, l’allevatore di Cervignasco, frazione di Saluzzo (Cuneo), che venerdì 1 aprile per protesta ha buttato nella concimaia 37 quintali di latte appena munto, ci sono lo strazio e il paradosso del mondo del latte in Italia, un Paese che importa dall’estero almeno il 60% del proprio fabbisogno di latte e che non riesce a garantire compratori a chi lo produce nelle stalle nazionali. La vicenda di questa azienda di medie dimensioni (150 vacche frisone) è quella di moltissime altre nelle medesime condizioni, in tutto il Nord Italia. “Mai ci eravamo trovati in una situazione simile – aggiunge Godino – siamo davvero all’assurdo. Così non si può andare avanti, vendiamo a meno del prezzo di produzione”. Nessun politico, nessun rappresentante delle categorie agricole, tranne il segretario zonale della Coldiretti di Saluzzo, Mario Dotto, che al mattino è stato in azienda per trovare una soluzione all’emergenza, sollecitando il soccorso della Compral latte, la quale il giorno successivo ha poi ritirato il latte con un accordo tampone. Per il resto, gli allevatori sono soli con il loro dramma (articolo di TerraOggi).

Roberto Burdese di Slow Food ha pubblicato, sempre il 1 aprile, sul suo profilo Facebook, questo duro attacco alla Valgrana: “Venerdì 1 aprile, vicino a casa mia, un allevatore ha gettato 3700 litri di latte nella fossa dei liquami perché l’azienda che gli ritirava il prodotto fino al 31 marzo (la Valgrana) non gli ha rinnovato il contratto. Un gesto estremo, direi persino violento, assolutamente non condivisibile anche quando c’è piena comprensione dei motivi che portano a compierlo e solidarietà per l’allevatore. Ci sarebbero tante cose da dire su questa crisi del latte, una crisi simbolica dell’agricoltura tutta. Una crisi che Slow Food ha cercato di prevenire e correggere già a partire da 20 anni fa, quando ci siamo inventati Cheese, piuttosto che la battaglia sul latte crudo, quella a favore dei distributori di latte, eccetera. Sempre osteggiato da molta grande industria e molta grande distribuzione. Ed è simbolico, da questo punto di vista, che proprio il Presidente di Valgrana alla vigilia dell’ultimo Cheese abbia attaccato Slow Food per la nostra battaglia contro l’uso di latte in polvere nei formaggi. Proprio lui che non ha rinnovato il contratto all’allevatore di Saluzzo che ha gettato il latte venerdì. Proprio lui che, guarda caso, da tre giorni compera pagine intere di pubblicità su La Stampa per dirci che Valgrana usa solo latte piemontese. Caro Presidente, ci dica anche quanto lo sta pagando questo latte. Perché l’allevatore che venerdì lo ha gettato, oggi lo sta vendendo a 18 centesimi al litro (meno della metà del costo di produzione!). Valgrana quanto paga? Non me ne frega niente che sia piemontese, se è sottopagato”.

Lo schema politico vede quindi Coldiretti e Slow Food dalla parte degli allevatori, che sarebbero nella loro narrazione i sottopagati di un sistema industriale e distributivo sempre più attento al profitto. Ma siamo sicuri che il sistema degli allevatori non abbia colpe? Perchè produrre latte piemontese costa di più che il latte estero? Più qualità e più sicurezza o carenze di organizzazione?

Il Professore Giampiero Lombardi dell’Università degli Studi di Torino, ha spiegato al Tg3 regionale che il Piemonte si porterebbe dietro problemi strutturali fin dagli anni ottanta. L’alimentazione dei capi da latte sarebbe più onerosa a causa dell’uso di foraggi costosi mentre all’estero si ricorrerebbe maggiormente al pascolo. Inoltre le dimensioni delle stalle (50 capi in media a stalla in Piemonte) sarebbero troppo piccole. Ancora il vecchio male italiano: aziende troppo piccole e che non creano quindi massa critica per avere forza contrattuale.

Le chiusure sono quindi una reazione naturale del mercato che sta eliminando la parte debole e spingendo gli altri a cambiare pelle? Non mancano gli esempi virtuosi, come la già citata Compral Latte che con un fatturato di 40 milioni€, 3.000 quintali di latte raccolto al giorno e 250 allevatori rappresenta probabilmente la via da seguire per uscire dalla crisi del latte piemontese. La triangolazione Compral Latte, Inalpi di Moretta (trasformatore), Ferrero (cliente finale) appare il modello virtuoso.

Spiega Bartolomeo Bovetti, direttore Compral: “oltre i centesimi in più e le ulteriori premialità dovute ai livelli qualititativi, siamo di fronte a un’operazione coraggiosa che ha portato gli allevatori ad avere una moderna visione del futuro. Vince chi fa squadra, contiene i costi, migliora le prestazioni e sviluppa le collaborazioni  per centrare i nuovi traguardi della competizione globale. Il percorso condiviso con INALPI rappresenta senza dubbio un esempio virtuoso per tutto il comparto”.

Altre regione come il Trentino (QUI), utilizzano il sostegno al reddito dell’Unione Europea anche per avviare azioni di marketing del prodotto generale, legando il concetto di latte locale con la provenienza territoriale. E come se pubblicizzassimo il concetto che la stessa terra che produce il Barolo e il Nebbiolo fa anche latte. Sarebbe una figata, no? Meglio sicuramente di altri inutili e sconosciuti loghi promossi dalla Regione Piemonte.

Link: CLAL analizza il mercato lattiero caseario, ne interpreta andamento e tendenze, rende disponibili dati, notizie e sintesi mediante un’attività di informazione e formazione.

Compral Latte, Inalpi, Caseificio Valgrana.



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Dario Ujetto

Da adolescente senza computer a quasi quarantenne googleiano DOC. Ovvero: come passare dalla lettura del giornale cartaceo, alla scrittura di un blog in meno di un nano secondo. Ma mi occupo anche di marketing, cibo, libri e comunicazione.

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1 Commento

  1. roberto25 26 Aprile 2016

    Quindi si scopre che alimentare le mucche con pascolo anziché insilati è più economico e magari anche più sano??? e alla Coldiretti non lo sapevano??? Il modello è il Latte Nobile, splendido esempio in Piemonte: Cascina Roseleto.

    Rispondi

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