La protesta dei pastori sardi è difficile da comprendere se non si eliminano i paletti ideologici.
Partiamo dai numeri. Sono oltre 14.000 i pastori in Sardegna. Non solo una forza economica, ma anche un presidio del territorio indispensabile.
Il Pecorino Sardo DOP è del resto uno dei grandi prodotti dell’agroalimentare italiano, legato ad uno dei territori turistisci più floridi dell’Italia.
Ma il problema, riguarda invece l’altro prodotto di punta della Sardegna, ovvero il Pecorino Romano con sede a Macomer.
Il 50% del Pecorino Romano è fatto da Cooperative, quindi da società dove i pastori sono loro stessi soci.
Ma allora perchè questa filiera non crea ricchezza per tutti?
La protesta dei pastori sardi sta riempiendo in questi giorni le pagine dei giornali, e parte dal crollo del prezzo del Pecorino Romano pari al -37% in tre anni.
Battista Cualbu, presidente di Coldiretti Sardegna, spiega inoltre che su ogni € incassato dalla vendita di pecorino solo 16 centesimi entrano in tasca all’allevatore.
Il prezzo di un litro di latte di pecora è attualmente 0,57 centesimi€, non sufficiente a coprire i costi del 90% delle aziende agricole locali.
Nonostante alcune iniziative dell’industria (come quella della piemontese Biraghi premiata ai Sardinia Food Awards) il rapporto fra trasformatori e pastori è perennemente all’insegna della tensione.
Tanto per capirci, il Pecorino Romano fattura 200 milioni€ all’anno, con oltre il 50% delle esportazioni in USA.
Dalle testimonianze raccolte da Ettore Livini di La Repubblica, gli attori della filiera non procedono in concerto, anzi sono in guerra.
“È un problema di domanda e offerta – afferma Salvatore Palitta, presidente del Consorzio Nazionale e voce dell’ industria – figlia di un eccesso di produzione”.
Capita ciclicamente da anni, ma nessuno riesce a trovare una soluzione.
“La filiera mette un tetto alla produzione, il prezzo sale e a quel punto qualcuno – spiega Cualbu – fa subito il furbo: i caseifici ignorano le quote inondando il mercato di forme extra e le quotazioni crollano. Un giro di giostra dove distribuzione e trasformatori fanno i soldi e il cerino resta in mano a chi lavora in stalla”, dice Cualbu.
È successo nel 2015 quando il valore del pecorino all’ ingrosso è schizzato a 9,3€ al chilo ma solo la metà del rialzo è stata girata ai pastori.
È capitato di nuovo nel 2018: l’ accordo era produrre 280.000 quintali di formaggio ma sul mercato ne sono arrivati 341.000.
Il prezzo – 7,7€ al chilo a gennaio – ha iniziato a calare e i tentativi di smaltire le eccedenze l’ hanno affossato ai 5,6€ attuali.
Chi paga il conto?
In teoria ci sono multe per chi va oltre i limiti produttivi. Ma è poca roba, parti a 0,16 centesimi al chilo.
Il Consorzio sta correndo ai ripari con iniziative speciali. Sarà troppo tardi?
Per approfondimenti, leggere l’articolo di Nicolò Migheli.