Nella comunità del caffè italiano si parla da giorni, ovviamente, della puntata di Report firmata da Bernardo Iovene. Uno “schiaffo” in faccia alle convinzioni tutte italiane (e provinciali) del Bel Paese come patria del caffè.
Con un montaggio sensazionalistico ma efficace, alcuni esperti italiani (fra cui Fabio Verona e Andrej Godina) hanno giudicato severamente le abitudini dei baristi italiani. Con un forte focus su Napoli, ma senza mancare di attaccare anche mostri sacri come il Caffè degli Specchi di Trieste.
La “Repubblica della Ciofeca”, così il titolo della puntata, ha anche pesantemente ridicolizzato le difese di due aziende del settore: Kimbo e Passalacqua. Che hanno contro-attaccato (qui Passalacqua, qui Kimbo).
La puntata è da vedere, ognuno poi giudicherà anche leggendo la risposta delle aziende. Noi registriamo come nostra la posizione di Fabio Verona, membro della Specialty Coffee Association:
“Abbiamo assistito a situazioni a dir poco imbarazzanti, palesemente lontane da quelli che possono essere i canoni di corretta prassi igienica su qualsiasi alimento, eppure supportate sia dalle torrefazioni che dalle istituzioni (perché non venite a dirmi che molti dei locali famosi ripresi non sono frequentati da forze dell’ordine, politici, ecc.), eppure che dichiarano numeri lavorativi da capogiro. Ma tant’è che proprio questa è la loro forza: hanno rinfacciato al buon Godina mentre elencava i difetti presenti nel caffè. Allora, dobbiamo davvero credere ad una mutazione genetica del cavo orale dei napoletani (e non solo), oppure sostenere la tesi del nonno, il quale affermava che l’unico vino buono fosse il suo, anche se era astringente e con note decisamente acetiche, ma siccome macchiava il bicchiere voleva dire che era genuino?”.
Detto questo, quello che spaventa della situazione è la totale mancanza di formazione da parte di molti baristi. In sostanza, nella maggioranza dei bar italiani uno dei prodotti agricoli più importanti per l’umanità viene trattato con sciatteria. E l’espresso sarebbe pure una delle icone del “vivere italiano”.
E non bastano giustificazioni come mutamenti genetici, scontrini battuti. La maggioranza dei bar italiani è in crisi perchè si offre un prodotto scadente ed un’esperienza cliente ancora più bassa.
Dice Banca del Fucino su dati FIPE che il numero di bar, ristoranti, mense e catering nel 2023 è diminuito dell’1,2%, scendendo a 331.888 unità. Il tasso di sopravvivenza di bar e ristoranti è tradizionalmente basso, come sottolinea il report 2024 della FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi): tra i locali nati nel 2018 solo il 54% era ancora aperto nel 2023; certamente la pandemia ha inciso in misura significativa, ma già nel 2019, prima del Covid, avevano chiuso il 19% dei bar e ristoranti aperti l’anno precedente. Tra 2022 e 2023, invece, il tasso di sopravvivenza è stato leggermente superiore, pari all’83%; ad abbassare la saracinesca è stato quindi il 17%.
Il mercato sta dunque decretando che il canale bar è in crisi, soprattutto nelle aree periferiche. Togliendo le macchine da guerra turistiche, che però vivono (ma ancora per quanto?) su logiche slegate dalla qualità del prodotto, in Italia si beve un pessimo caffè (e quasi sempre pessimi lievitati) e i risultati economici ne sono una conferma.
Fra dieci anni, gli attuali 132.004 bar attivi in Italia (ovvero il 39,8% delle imprese della ristorazione) caleranno pesantemente o si aggregheranno. I bar guidati da under35 (12,6%) sono quelli più aperti ad innovazione e formazione. Lo dimostra anche la wave degli Specialty Coffee anche in Italia.
La caffetteria del futuro di successo e sostenibile, passerà da 3 step fondamentali: