Anthony Lane, giornalista e critico cinematografico del New Yorker (la rivista più chic e radical chic di N.Y.), scrive un lungo articolo sul risotto. Celebrando il piatto che lo ha fatto innamorare dell’Italia e che ha scoperto a Venezia durante l’infanzia.
Ilaria Ricotti su Linkiesta Gastronomika cita il pezzo e lancia la provocazione: al risotto manca il marketing. Per questo all’estero è ancora poco associato al “Made In Italy”.
Ma è proprio così? Non ho una risposta, ma posso elencare una serie di cause per cui pasta e pizza sono sinonimo di Italia e il risotto ancora no. E probabilmente non manca il marketing, ma un piano di comunicazione strategica (ma in capo a chi?) certamente sì.
Ma veniamo ai numeri. Ogni anno, l’Italia coltiva riso su una superficie di circa 230.000 ettari, principalmente in Piemonte e in Lombardia: insieme rappresentano il 94% della produzione nazionale. Circa due terzi del riso prodotto in Italia vengono esportati. Non tutto diventa ovviamente risotto.
L’Italia ha prodotto il 58,5% del riso dell’Ue, la Spagna il 16,6% (con produzione in calo).
Dal punto di vista dei numeri, quindi, l’Italia può contare su aziende che lavorano e che esportano. Acquerello, Gli Aironi, San Massimo e tante altre realtà sono presenti nelle cucine di tutto il mondo sull’alto di gamma.
E quindi perché il risotto non è come la pizza? Il marketing forse non manca, mancano le ragioni storiche di una diffusione. Il riso è coltivato in Asia, ed in Asia è consumato in varie preparazioni che non sono ovviamente il risotto. E in USA arrivarono in maggioranza gli immigrati del Sud Italia, che il risotto non preparavano (essendo un piatto tipico del Nord Italia).
Gli ingredienti di pizza e pasta erano poi reperibili, meno il riso. Per niente in Sud America, dove in maggioranza arrivarono immigrati del Nord Italia.
La storia quindi pesa, ma pesa anche la difficoltà di preparazione di un buon risotto. Che nei tempi passati, prima della preparazione dei risotti pronti e sottovuoto, era lunga e complessa. Meno standardizzabile che la preparazione di una pasta secca o di una pizza.
Soluzioni? Non saprei. Forse al fianco delle aziende italiane di riso manca quell’ecosistema di comunicazione e branding di sistema su cui possono invece contare le aziende di farina, le pizzerie, i pastifici.
Ad oggi non esiste un premio sul miglior risotto, o sui 50 migliori ristoranti di riso. E questo è solo un esempio. Vercelli e Pavia, poi, non sono Napoli. Il risotto non è un cibo di strada, non permea il lavoro di migliaia di famiglie di ogni estrazione sociale.
Il riso e il risotto italiano hanno fatto passi da gigante e lavorano bene, ma per diventare icona ci vuole altro. Le aziende e i produttori sono ancora troppo soli? O gli va bene essere soli?