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Ghetto e caporalato in Italia: un libro

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Ghetto Italia è il titolo del libro di Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet (Fandango libri, 15€) che si propone di raccontare la vita di braccianti agricoli sfruttati.

Racconti crudi, con pochi filtri, che presentano al pubblico la realtà dello sfruttamento umano in campo agricolo. Nardò, Pachino, Canelli e altre zone agricole italiane vivono la vergogna di baraccopoli abitative spesso senza servizi e luce, dove comunità di sfruttati vivono in promiscuità controllati da organizzazioni criminali.

L’Osservatorio Placido Rizzotto di FLAICgil quantifica in 400.000 i lavoratori agricoli (80% stranieri) che vivono situazioni di irregolarità. 100.000 di questi sono esposti a gravi disagi abitativi ed igienici, a rischio malattie.

In Italia sono 80 i distretti agricoli in cui sono stati riscontrati casi di caporalato: in 33 si sono riscontrate condizioni di lavoro indecenti, in 22 di lavoro gravemente sfruttato.

Una realtà fotografata da Nord a Sud. Sono tutti dati contenuti nel secondo rapporto agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai CGIL.  Lo studio è aggiornato alla luce dell’applicazione dell’articolo 603 bis del codice P.P. – che dal 2011 fa del caporalato un reato penale – e comprende 18 mappe regionali dettagliate, con epicentri di sfruttamento e flussi migratori transnazionali e interregionali.

Il caporalato si incrocia spesso con l’Agrimafia, quel complesso nodo criminale che sfrutta le risorse agricole e l’indotto per arricchirsi illecitamente. Secondo il centro di ricerca Transcrime sono 27 i gruppi criminali che operano nel settore agricolo

Il danno annuale all’erario è di circa 660 milioni€ all’anno.

Ghetto Italia racconta questa realtà e rende il racconto accessibile al grande pubblico. Abbiamo avuto la possibilità di parlare con gli autori, Palmisano e Sagnet, e di poter far loro alcune domande.

Ghetto-Italia

Dal libro appare che la realtà dei ghetti e della gestione della manodopera agricola sia ben strutturata, con migrazioni stagionali e una vera e propria infrastruttura dello sfruttamento. Dalla vostra esperienza e dalle vostre ricerche, sono presenti simili scenari anche in altre economie agricole come Spagna, Grecia e in ultimo Francia?

La condizione dei braccianti nell’area mediterranea risente di una sempre più forte pressione dei grandi mercati (nordeuropei) sui piccoli e medi produttori. Si sta diffondendo una forte ricattabilità dei lavoratori, ma in Italia la cosa assume connotati più gravi e più evidenti perché la normativa sul lavoro evoca, storicamente, lotte che in altri Paesi non sono state così importanti. Questo spiega, in qualche modo, anche la ferocia del sistema del caporalato italiano contro i lavoratori. Non che altrove non esista il fenomeno, anzi, ma esso si adatta plasticamente ai dispositivi territoriali del mercato del lavoro euromeditarraneo, mostrando una disposizione a internazionalizzarsi mantenendo una dose di localismo.

Premesso che dietro ad ogni azienda che sfrutta i lavoratori siedono delle persone (quindi identificabili) con la loro etica, a vostro parere (in base a numeri e dati) quanto pesa sulla situazione dei lavoratori stranieri la spirale di rincorsa al maggior ribasso di prezzo (imposto spesso dalla GDO)?

Il prezzo del prodotto fissato dal cartello delle multinazionali agroindustriali e dalle grandi catene commerciali determina il costo del lavoro. Prima non era così. Le multinazionali non sfruttano soltanto i campesinos in Sudamerica o i contadini in Asia, ma tendono a ridurre i diritti acquisiti anche in Europa. La grande distribuzione, poi, importa a prezzi prestabiliti dentro i quali il costo del lavoro è sempre più residuale. Non sparisce il lavoro dei braccianti, semplicemente si tende a non pagarlo più. Purtroppo questo vale anche per prodotti costosi e di alta qualità, dove la rendita è molto elevata. Diciamo che rincorrendo il profitto oltre ogni decenza chi ci sta rimettendo, anche la pelle, sono i braccianti.

Nardò, Rosarno, Pachino. Ma anche Canelli e Savigliano. Il nostro amato Piemonte non sfugge a comportamenti criminali. A vostro parere qual’è oggi la breccia nella Legislazione del lavoro che sfruttano gli “sfruttatori” di manodopera?

La breccia è innanzitutto culturale. Noi assistiamo ogni giorno ad una svalutazione del valore morale e sociale del lavoro. L’Italia e l’Europa hanno deciso che il lavoro non deve più dare identità, quindi può non essere garantito o tutelato, ma reso flessibile o perfino volontario. La parola “lavoro” fa paura perché evoca un’epoca di grandi sconvolgimenti sociali. Ne ha paura la politica italiana, per esempio, che interviene contro il caporalato ma non contro le grandi imprese che si nutrono di caporalato. Diciamo che il quadro etico di riferimento sta esplodendo in faccia ai braccianti come una bomba.

Esistono, nella vostra esperienza, aziende che hanno comportamenti etici? In che modo il consumatore può riconoscerle e quindi premiarle?

Ci sono aziende virtuose, certo, ma non c’è un sistema virtuoso. E questo vale per il Sud come per il Centro e per il Nord. Tutto sembra progressivamente appiattirsi sulla bassa qualità delle tutele. Al Nord c’è un maggiore ricorso al voucher – un sistema di legalizzazione della ricattabilità -, al Sud c’è più nero perché culturalmente più tollerato. Ma tutto questo racconta di un Paese dove il lavoro dei braccianti non deve essere tutelato. Finché i prodotti non saranno tracciati, cioé finché mia madre non saprà se nel barattolo di pelati che sta comprando c’è solo lavoro garantito da un contratto regolare, allora il nero e il grigio prevarranno. E i lavoratori continueranno a morire nei campi.



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Dario Ujetto

Da adolescente senza computer a quasi quarantenne googleiano DOC. Ovvero: come passare dalla lettura del giornale cartaceo, alla scrittura di un blog in meno di un nano secondo. Ma mi occupo anche di marketing, cibo, libri e comunicazione.

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